Gabriele Accattoli

Questo di oggi è il quarantanovesimo articolo che pubblico sulla rubrica “Criminalistica e Criminologia” di Radioerre.it.

Nei precedenti articoli, avevo raccontato la storia e l’evoluzione delle indagini scientifiche e della criminologia, ho presentato le varie tipologie di rilievi scientifici, le tecniche e gli scopi, ho parlato degli elementi di criminologia, lo studio del criminal profiling, delle tecniche e sistemi utilizzati per la profilazione del reo, nonché dei campi di impiego.

Dopo questi aspetti, ho presentato alcuni casi di cronaca, veri, facendo ricadere la scelta su episodi di “morti dubbie”, ovvero seguite e poi archiviate per suicidio, quando invece, una visione più ampia ed attenta, potrebbe dare delle letture diverse.

Le letture di cui parlo non sono tanto basate su una ricostruzione soggettiva, su valutazioni personali ed interpretative, anche se in alcuni aspetti hanno il loro dovuto peso, bensì su valutazioni che scaturiscono da riscontri oggettivi, concreti, quelli dati dai rilievi di criminalistica che, a parere dello scrivente, tracciano e fissano la vera prova, quella che in fase di decretazione del rinvio a giudizio o di archiviazione e successivamente in seno al processo, nel dibattimento, dovrebbero sostenere, con dati certi, scientifici e concreti l’accusa nonché la difesa.

Ho usato il termine “dovrebbero” perché, come abbiamo visto nei casi che ho presentato, purtroppo, è evidente che spesso viene dato più valore e forza alla “ricostruzione e valutazione soggettiva” che da quanto evidenziato e fissato con riscontri scientifici “oggettivi”.

Senza scendere specificamente nei casi, abbiamo visto suicidi con armi da fuoco, dove sulle mani delle vittime non si sono trovati residui dello sparo, dove l’arma documentata con rilievi fotografici sulla scena del crimine, non è la stessa poi sequestrata, abbiamo visto perizie calligrafe contrastanti o mai fatte, abbiamo visto in tantissimi casi che l’indagine dattiloscopica non è stata eseguita e dove è stata fatta, con risultati non confacenti all’ipotesi del suicidio, è stata sminuita con valutazioni del tutto soggettive, abbiamo visto lesioni non compatibili con il fatto narrato, ma compatibili con colluttazioni, abbiamo visto non prendere in considerazione elementi tecnico scientifici che, al fine di dimostrare il suicidio erano ininfluenti o addirittura penalizzanti, mentre sarebbero risultati fortemente provatori per sostenere la causa dell’omicidio.

Abbiamo visto tante incongruenze, tante letture o valutazioni di comodo, tanti mancati approfondimenti che hanno portato, purtroppo, a ritenere che le cose potrebbero non essere andate come decretate o come altri pensavano e credevano.

            Il forte dubbio e di conseguenza le domande che ci si pongono, vengono spontanee, “di chi è la colpa? Chi ha sbagliato?

Piccola premessa, ad eccezione di alcuni casi che ho presentato, dove il dubbio è fortemente marcato, nella maggior parte dei casi non penso che si tratti di “dolo”, ovvero il voler chiudere il caso con la consapevolezza che le cose non siano andate in quella maniera, bensì, una serie di circostanze, spesso di natura soggettiva, possono aver portato a decisioni apparentemente, e magari anche effettivamente, non consone alla realtà dei fatti.

Come avevo detto nei precedenti articoli le “figure” che intervengono nella trattazione dei casi di crimine violento, sono diverse. L’investigatore, di norma identificabile nella Polizia Giudiziaria, il criminalista, identificabile nei settori delle indagini scientifiche, Polizia Scientifica e RIS dei Carabinieri, la Magistratura, dapprima il Procuratore della repubblica titolare delle indagini, poi il GIP, il Giudice delle Indagini Preliminari, e poi il Giudice del Tribunale qualora si arrivi alla fase dibattimentale; spesso e volentieri, però, il giocoforza sull’esito della questione giudiziaria, viene fatto ancor prima che la pratica arrivi al dibattimento.

            Detto così, sembrerebbe che le eventuali responsabilità sull’esito finale, le vorrei andare a trovare nelle figure che ho citato, ma di fatto non è così, ovvero, fermo restando che la partenza con il giusto piede è sicuramente data dalle prime tre figure che ho citato, non dobbiamo mai dimenticare che l’art. 111 della Costituzione, denominato “Giusto Processo”, prevede, tra l’altro, dei punti indelebili: la terzietà ed imparzialità del giudice; il rispetto delle garanzie difensive; il rispetto della parità tra accusa e difesa; che lo svolgimento del processo avvenga nel contraddittorio tra le parti; la possibilità di interrogare o far interrogare le persone che lo accusano o che lo possono discolpare; la garanzia del contraddittorio anche nella formulazione della prova.

In base a questo dobbiamo tirare in ballo altre figure che, in funzione dell’articolo che ho citato, diventano elementi fondamentali per poter addivenire ad una giusta delineazione del fatto criminoso, ovvero il legale di fiducia, sia esso il difensore dell’indagato o imputato, nonché il difensore della Parte Offesa.

I legali, con l’ausilio dei CTP (consulenti tecnici di parte) e dei Periti e gli investigatori privati, di fatto hanno le stesse opportunità di indagine che ha l’accusa, certo, alcune funzioni sono a loro interdette, come ad esempio le perquisizioni, ma tutto quello che riguarda le indagini scientifiche, di criminalistica, gli interrogatori, la raccolta di elementi e la ricerca di fonti testimoniali, è permesso alla pari degli organi investigativi. Certamente l’apparato difensivo ha dei limiti, in particolare in tutte quella attività ritenute come “atti irripetibili”,  il ranger di intervento è notevole e, se approntato con la giusta professionalità e capacità, potrebbe essere anche fortemente determinante.

            E qui arriva il bello, nell’ipotesi in cui chi è demandato a fare le indagini, sia per preconcetti o per convincimenti, sia per svista o per sottovalutazione, magari anche per una piccola vena di non sempre elevata professionalità, e sicuramente mai, o in rari casi, per scelta volontaria e dolosa, arrivi a delineare una ricostruzione dei fatti e ad individuare un eventuale responsabile, facendo errori di valutazione o altro, spetta al legale rappresentante e al suo team di collaboratori professionisti a contrapporsi nel “contraddittorio” e far emergere le eventuali discordanze, nonché incongruenze che poi il Giudice terzo, superpartes, dovrà raccogliere, valutare ed analizzare per arrivare ad una sentenza che rispetti sempre un elemento fondamentale “al di sopra di ogni ragionevole dubbio”.

Penso che sia chiaro, laddove le indagini partono male, con il piede sbagliato, lasciando elementi importanti perché non seguiti o non visti ecc., abbiamo in contrapposizione un’attività difensiva non in grado di sostenere le proprie prove ed i propri riscontri scientifici, o peggio ancora, non in grado di produrli in forma corretta e convincente, tutto il resto viene da sé………..

Quindi, alle domande che avevo posto sopra, “di chi è la colpa? Chi ha sbagliato? purtroppo non è facile dare una risposta, il buon senso vorrebbe che alla fine di un procedimento penale, con l’ausilio di tutte le parti, accusa, difesa e parte offesa, vengano messe sul piatto della bilancia del Giudice terzo, tutte le prove possibili ed immaginabili per arrivare ad una “certezza”, ad una giusta definizione del fatto criminoso con la condanna o assoluzione degli autori o presunti tali, a definire se c’è stata “colpa” o “dolo”, se l’accaduto deriva da un gesto e scelta volontaria della vittima o per opera di terzi,  ma spesso dobbiamo renderci conto che così non è…….

            È doveroso, per me, che si tenga sempre presente tutte le figure che ho citato sono rappresentate da persone, uomini e donne, non macchine o computer, tutti possono commettere degli errori, e questo è umano, però nello stesso tempo non si può dimenticare, che da questo può derivare la perdita della libertà personale di un individuo, o la mancata giustizia per la vittima del reato…….. certamente questo potrebbe non giustificare o scusare nessuno, però, fermo restando la giusta richiesta di un’alta professionalità e capacità, è un dato di fatto del quale non possiamo non prenderne atto, salvo, ovviamente, che non si tratti di scelte consapevolmente errate, sbagliate o di comodo, ma qui andiamo su un altro piano, che non voglio pensare sia inerente alla mia presentazione e valutazione delle vicende.

In tanti miei articoli ho presentato come mia maniaca convinzione, il culto della “scena del crimine”, degli interventi di indagini tecniche e scientifiche, ho più volte detto che la scena del crimine “ci parla” e dobbiamo saperla ascoltare, comprendere, dobbiamo saperla leggere. Ho sempre sostenuto, a gran voce, che l’approccio alla scena del crimine deve avvenire con la mente priva da preconcetti o convinzioni personali, e che questo elemento, se venisse a mancare, non garantirebbe una corretta raccolta di tutto ciò che la stessa ci può dare.

Un errore, che personalmente ritengo gravissimo, è l’approccio alla scena del crimine e di conseguenza le indagini investigative di Polizia Giudiziaria, con l’obiettivo di voler dimostrare quello che noi ci siamo convinti sia successo o per ricercare le prove atte a dimostrare la responsabilità del reato nei confronti della persona che noi ci siamo convinti sia l’autore, andando a pagare il prezzo, grande prezzo, di alienare dei riscontri e dei risultati che potrebbero portare ad altre delineazioni e definizioni sull’accaduto e sulle responsabilità.

            Più volte ho scritto, magari anche in forma apparentemente ironica “…è un fatto semplice, è suicidio….”, questo vale per i casi omicidio contro suicidio, ma ha la stessa valenza se andiamo a sostituire alcune parole come ad esempio “…è un caso semplice, è stato tizio….oppure, è un caso di femminicidio, è stato il marito…….” e tanto altro. Questa purtroppo è una costante nell’approccio alle indagini che spesso, troppo spesso, si riscontra, magari anche con l’ausilio dei “talk Show” televisivi, che ancor prima che un Giudice decida, già mediaticamente viene svolto il processo, andando a delineare cosa sia successo, chi sia il responsabile, a creare e generare mostri criminali, tante cose che poi, con l’intervento dell’opinione pubblica alimentata e potenziata dai social network potrebbero, e non è poi cosi tanto impossibile, andare ad influenzare chi è chiamato ad indagare o peggio ancora a giudicare.

Altro aspetto che più volte ho richiamato, ritenendolo come una povera caduta dell’aspetto umano, un errore eventuale sicuramente non per dolo ma per induzione del subconscio, nello scegliere una chiusura di un fatto delle indagini, ad esempio come suicidio, anziché lasciare un caso aperto, come chiamato nei paesi anglosassoni “colde case”, caso freddo.  Questo pensando che sia più deplorevole non identificare un responsabile o dire non siamo riusciti a dare risposte certe, al posto di dire mettiamo tutto in stand by, apriamo un procedimento contro ignoti, e quando avremo dei riscontri precisi e più sicuri lo riapriamo, quindi si arriva, o si preferisce, scegliere la strada più corta, meno tortuosa e magari più consona alle aspettative dell’opinione pubblica.

La paura di scovare la verità, l’opportunità di evitare che emerga qualcosa di particolare, che un fatto apparentemente semplice possa sfociare in qualcosa di più grande, che diventi poi incontrollabile o pericoloso per altri aspetti che vanno oltre il semplice fatto criminoso, è un altro aspetto che purtroppo potrebbe intervenire a discapito della verità e della giustizia, però voglio pensare che questo sia un elemento che trovi poche spiegazioni in casi strani anche se, purtroppo, il fantasma di questa possibilità non è poi più di tanto inesistente.

Per spiegarmi meglio, voglio riproporre una “storiella” che avevo pubblicato con il mio primo articolo, forse all’epoca non era stata ben inquadrata in quello che volevo trasmettere, oggi, dopo questa lunga “chiacchierata” potrebbe essere letta oltre che in chiave comica, anche con quella di un significato ben particolare.

E’ TUTTA COLPA DELLA BANANA

Agosto, domenica caldissima, arriva al mare una famiglia, padre, madre e rispettiva prole. Una famigliola un pò vecchio stampo, individuabile nel corredo di cesti, cestini e portapranzo a loro seguito. Ora di pranzo si dà inizio alle danze, dal corredo viene estratto tutto e di più, dalle lasagne, melanzane alla parmigiana, insalata di riso, porchetta, cotolette fritte, arrosto di carne, verdure fritte e sottolio, affettati vari, formaggi, ciambellone fatto in casa, il tutto condito da bottiglioni di acqua, aranciata, chinotto e vino, rigorosamente freddi, gelati. Il pranzo, per ovvi motivi di quantità, porta via due ore, due ore all’ombra dell’ombrellone ad ingurgitare. Terminato il “leggero pasto”, i componenti della famiglia si dedicano alle attività più consone all’età; la prole a giocare sul bagnasciuga, il padre a sonnecchiare scrutando qua e là un bikini interessante, la mamma a schiacciare un profondo pisolino sulla sdraia. Passano un paio d’ore e la mamma, risvegliatasi dal pisolino, forse non del tutto appagata da quanto aveva ingurgitato, va alla ricerca di uno stuzzichino nei cestini dove, nel fondo, nascosta, intravede una banana. La donna, per inquadrare il soggetto, molto in carne, un po’ lenta e goffa nei movimenti, come direbbero a Napoli “nà chiattona”, estrae dal cestino la banana e con cura materna se la mangia in 4 morsi. Trascorrono pochi minuti incominciano i lamenti, “o dio sto male, ho dolori allo stomaco, o dio che fitte…..” la mamma si lamentava e ritorceva sulla sdraia, creando, tra l’altro, una sollecitazione di forze e peso al limite della sopravvivenza alla povera sdraia, continuava “…andate dal bagnino, chiedete aiuto, vedete se ha qualcosa per lo stomaco…non ne posso più..”  uno dei figli va dal bagnino e torna all’ombrellone con lui. Il bagnino “signora, che succede? Di cosa ha bisogno? Chiamo i soccorsi?” la mamma tra uno spasmo e l’altro, risponde “….no, ma quali soccorsi, mi basta un digestivo, un diger-selz……. Ho mangiato una banana e mi ha fatto male……. TUTTA COLPA DELLA BANANA.

Accattoli Gabriele

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