Dopo una veloce pausa riprendo l’argomento delle morti eccellenti inerenti alla maxi tangente Enimont ed al processo “mani pulite – tangentopoli”.

Avevo parlato in un precedente articolo del primo defunto della serie, Sergio Castellari, rinvenuto cadavere il 25 febbraio 1993. A distanza di pochi mesi un altro nome eccellente dell’inchiesta viene trovato morto nel bagno della sua cella del carcere di san Vittore, era il 20 luglio 1993, e parliamo di Gabriele Cagliari.

La morte di Cagliari, fermo restando ipotesi, forse complottiste, sul giusto inquadramento del fatto, ovvero suicidio o omicidio, avevano scosso di più l’opinione pubblica sulla necessità o meno dell’utilizzo del carcere preventivo.

Prima di scendere nei particolari, nelle tesi di discussione ed altro, è doverosa una veloce presentazione dell’uomo Gabriele Cagliari.

Nacque a Guastalla (RE) il 14 giugno del 1926, laureato in ingegneria industriale al Politecnico di Milano incominciò a lavorare per le più importanti aziende chimiche d’Italia. Nel 1983 venne nominato membro della giunta esecutiva dell’ENI sponsorizzato da Bettino Craxi, infatti il Cagliari era considerato “vicino” al PSI (partito socialista italiano). Su indicazione del PSI nel 1989 fu nominato presidente dell’ENI. Era il periodo delle trattative che poi avrebbero dato origine alla fusione dell’ENI, la principale azienda pubblica energetica italiana, con la Montedison, un’azienda chimica privata, per la nascita dell’Enimont, operazione condotta da Raul Gardini, per la quale diventò il principale azionista. Le vicende precise della fusione e quello che ne portò, poi le approfondiremo quando parlerò della morte di Raul Gardini.

Il 9 marzo 1993, all’età di 67 anni, Gabriele Cagliari viene arrestato come presunto partecipe alla maxi tangente Enimont e tradotto nel carcere di San Vittore a Milano.

            In questa vicenda, suicidio o omicidio, i dati scientifici di criminalistica su cui ragionare sono pochi, labili, e comunque li vedremo alla fine dell’articolo. Per Cagliari il discorso relativo alla sua morte, secondo me, dobbiamo vederlo sotto un altro aspetto. Premetto, il reato di istigazione al suicidio, art. 580 codice penale recita: “chiunque determina altri al suicidio o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, è punito, se il suicidio avviene, con la reclusione da cinque a dodici anni….” . Se proviamo a tradurre, o interpretare, il termine “determinare”, secondo il dizionario della lingua italiana, potremmo accostare questa parola a “Produrre come immancabile effetto, causare, provocare…..”, ma il diritto penale italiano, come elemento di procedibilità mette una condizione fondamentale, ovvero “l’elemento soggettivo”, cioè, la consapevolezza e la volontà che quel fatto riconosciuto come criminoso venga compiuto o si compia; possiamo noi pensare che i Pubblici Ministeri titolari dell’inchiesta di tangentopoli abbiano voluto che accadesse ciò? Penso proprio di no, Cagliari, come Castellari e poi Gardini, erano i testimoni chiave per smascherare il giro delle tangenti, e non si può pensare, tantomeno credere, che sia stato interesse dei PM che queste tre persone morissero. Stessa considerazione per l’aspetto previsto da l’agevolare in qualche modo l’esecuzione.

Se sì altri ambienti o altre “comitive” potevano ambire ed avere l’interesse che questi tre super testimoni non dicessero quanto a loro conoscenza, ma qui la cosa si complica. Perseguire un fatto criminoso come omicidio, o ancor peggio come istigazione, avendo a disposizione pochi elementi di prove certe, o quasi nessuna, magari perché non sviluppate con la dovuta attenzione o corretta lettura, significherebbe brancolare nel buio con la quasi certezza della definizione di non individuare il colpevole, o mandanti, e, purtroppo, è più comodo e più bello, ovvero così concepito, che è meglio chiudere un’inchiesta con definizione certa “suicidio”, anziché lasciare in piedi un procedimento penale senza poter scoprire l’autore, sembra che la cosa sia disonorante…….

Torniamo alla morte di Gabriele Cagliari, lo stesso dopo quattro mesi di carcere preventivo viene ascoltato, interrogato, dai PM il 15 luglio, dopo l’interrogatorio sembrava che Cagliari, vista la sua collaborazione, venisse scarcerato ed inviato agli arresti domiciliari, ma così non fu. Il 17 luglio successivo, il PM prese la decisione di prolungare la permanenza in carcere, motivandola con il timore che Cagliari potesse inquinare le prove. Tre giorni dopo, Cagliari viene rinvenuto morto nella sua cella.

            Il fatto, definito come suicidio, comunque innescò una serie di reazioni perché, seppur i PM procedenti furono riconosciuti non negligenti per come avevano operato, si elevarono dei cori di disaccordo sull’uso del carcere preventivo, custodia cautelare, utilizzato come forma coercitiva per ottenere confessioni da persone non abituate alla durezza del carcere.

Il sistema per allungare la permanenza in carcere era consolidato, una pratica molto comune in quelle inchieste, all’indagato veniva contestato un reato ed affidato in via cautelare al carcere, per Cagliari iniziò con la contestazione di una presunta tangente pagata dal suo gruppo per vincere l’appalto di un’altra società statale. Dopo la prima contestazione, mentre la persona indagata era in carcere, venivano aperte nuove inchieste, nel caso del Cagliari altri reati che avevano a che fare con una rete di “fondi neri” dell’ENI e con l’accordo fatto tra l’ENI e la SAI di Salvatore Ligresti, che portavano alla decisione di altri ordini di carcerazione preventiva, così facendo allungando la permanenza in carcere.

Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco: sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna”.

“L’obiettivo di questi magistrati, quelli della Procura di Milano in modo particolare, è quello di costringere ciascuno di noi a rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il nostro “ambiente”. Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli occhi dell’opinione pubblica per il solo fatto di essere inquisito o, peggio, essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di “collaborazione” che consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile, inaffidabile: che diventi cioè quello che loro stessi chiamano un “infame”. Secondo questi magistrati, ad ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni futuro, quindi la vita, la famiglia, gli amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui quali loro e i loro complici intendono mettere le mani. Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo nell’amministrazione pubblica o para-pubblica, ma anche nelle amministrazioni delle aziende private, come si fa a volte per i falliti. Si vuole insomma creare una massa di morti civili, disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame della magistratura che è il sistema carcerario. La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura, psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione o ammuffire, indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente. Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza testa né anima. Qui dentro ciascuno è abbandonato a se stesso, nell’ignoranza coltivata e imposta dei propri diritti, custodito nell’inattività e nell’ignavia; la gente impigrisce, istupidisce, si degrada e si dispera diventando inevitabilmente un ulteriore plicatore di malavita.

Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni procuratore può prelevarci per fare la sua propria esercitazione e dimostrazione che è più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione alcuni giorni prima, o alcune ore prima. Anche tra loro c’è la stessa competizione o sopraffazione che vige nel mercato, con la differenza che, in questo caso, il gioco è fatto sulla pelle della gente. Non è dunque possibile accettare il loro giudizio, qualunque esso sia. Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato autoritario, al loro regime della totale asocialità”.

            Questi sono degli stralci delle lettere che Gabriele Cagliari scrisse ai propri familiari nei quattro mesi di carcere, il pensiero al “suicidio” è forte, inconfondibile, e fermo restando quale sia stato l’epilogo finale, la domanda che ci si pone è scontata: è stato fatto tutto per evitare che quanto chiaramente annunciato non accadesse? Alla morte di Cagliari seguirono diverse inchieste sul fenomeno suicidi in carcere ed in particolare per la sua morte, ma tutte si chiusero con un nulla di fatto.

Ho ascoltato e letto diverse interviste di studiosi sul fenomeno ed in particolare sulla vicenda Cagliari, quella che più mi ha colpito sosteneva che i magistrati usarono norme e regole fuori dalla legge del codice penale, arrivando ad affermare che il carcere preventivo aveva come obiettivo quello di impedire la fuga, la reiterazione del reato ovvero il ripetersi del fatto criminoso o la distruzione delle prove, bensì condurre l’imputato a confessare, copiando i sistemi in uso del medioevo e della santa inquisizione.

Secondo Albert Einstein, la mente è come un paracadute, funziona solo se si apre; la struttura cognitiva del pensiero è condizionata dalle emozioni. Qui mi aggancio per una prima mia valutazione, ovvero, personalmente ritengo che, salvo non si manifesti la fermezza rilevabile dalle parole di Einstein, la mente umana è predisposta alla “sopravvivenza”, se si sceglie, si decide, di togliersi la vita usando un metodo immediato, impiccagione, sparo alla testa, gettandosi nel vuoto, la possibilità di ritorno non c’è, una volta messo in essere l’atto, come disse Giulio Cesare, il dado è tratto, e non ci sarà il tempo per attivare il paracadute. Ma chiedo a voi lettori, riuscite ad immaginare quanto si impiega a morire per soffocamento con un sacchetto di plastica in testa? È possibile secondo voi che in quel tempo che intercorre tra l’inizio dell’azione e la perdita dei sentimenti, durante un’atroce sofferenza, che il paracadute per la sopravvivenza di Einstein non si apre lasciando intervenire un semplice gesto, mollare la chiusura del sacchetto o, se troppo serrata al collo, semplicemente strapparlo all’altezza del naso e della bocca per poter tornare a respirare? Non conoscevo Cagliari, non so quale sia stata la sua fermezza e la sua forza di volontà, ma credetemi, umanamente pensando stento a credere che una persona possa togliersi la vita usando quel sistema.

Avevo lasciato alla fine l’aspetto criminalistico, delle indagini scientifiche, purtroppo non ho trovato molto su cui discutere ed argomentare l’aspetto, solo due elementi. In un servizio dedicato alla morte di Gabriele Cagliari, si “insinua” che in sede autoptica, sono state rilevate sul volto di Gabriele delle tumefazioni compatibili con una colluttazione, però questo aspetto sembra non essere stato preso in considerazione da nessuno e mai trattato o citato.  L’altro aspetto, non ho trovato alcun riferimento sul fatto che siano stati eseguiti accertamenti dattiloscopici, indagini dattiloscopiche, atte alla ricerca di impronte papillari sul sacchetto usato per soffocare Gabriele Cagliari, allo scopo di accertare se le stesse erano solo le sue o se presenti quelle di altra o altre  persone; se detta attività di indagine è stata eseguita ed ha dato esito negativo, non ho nulla da dire, ma se questa attività non è stata eseguita, come penso sia accaduto visto che non c’è traccia in nessun documento, la questione lascia dei dubbi, secondo me, sulla genuinità dello svolgimento delle indagini, forse per comodo, o forse, come ho sempre sostenuto, sono state inquinate o inficiate dal fatto di essere arrivati sulla scena del crimine con il “pregiudizio” e convinzione che si trattava di una storia semplice, un suicidio.

La settimana prossima concluderò l’argomento con la morte di Raul Gardini.

 

Accattoli Gabriele

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