nota di Carlo Sirocchi

Non si può fare cultura con le provocazioni fini a sé stesse. L’evento “Vulva Gallery”, presentato come una grande operazione di sensibilizzazione, dimostra invece quanto il linguaggio possa essere piegato a una logica di pura spettacolarizzazione, a scapito del vero contenuto artistico e storico. Il problema non è solo l’uso della parola “vulva”, ma il modo in cui viene imposta come simbolo di una battaglia che non ha bisogno di slogan forzati, ma di spessore e approfondimento.
Il titolo scelto non è neutrale né inclusivo: è divisivo, volutamente provocatorio e, soprattutto, riduttivo. La donna, la sua storia, la sua identità vengono condensate in un termine anatomico, come se la sua essenza si esaurisse in una parola che, per quanto legittima dal punto di vista medico, non ha nulla di culturalmente raffinato o evocativo. Siamo di fronte all’ennesimo esempio di come la comunicazione moderna si riduca spesso a un marketing aggressivo e superficiale, mascherato da impegno sociale.
Le organizzatrici dell’evento difendono questa scelta come una sfida ai tabù, ma in realtà sembra piuttosto un facile escamotage per attirare attenzione e generare dibattito a ogni costo. Il vero problema è che questo tipo di linguaggio non unisce, ma divide. Non educa, ma scandalizza. Non invita al dialogo, ma costringe chiunque osi dissentire a difendersi dall’accusa di arretratezza culturale. Un atteggiamento che ricorda più una forma di imposizione ideologica che una reale apertura al confronto.
Si dice che la Generazione Z abbia un nuovo modo di esprimersi, che ridefinisce i confini del linguaggio. Ma siamo sicuri che questo sia il progresso? O è solo un modo per normalizzare un lessico che svuota di significato battaglie ben più profonde? Si sostiene che termini come vulva debbano entrare nell’uso comune per superare pregiudizi e stereotipi, ma c’è una differenza tra l’abbattere un tabù e ridurre la complessità dell’identità femminile a una semplice etichetta provocatoria.
Infine, stupisce la retorica con cui si cerca di colpevolizzare chi solleva obiezioni. Chi critica “Vulva Gallery” non lo fa perché infastidito dalla parola in sé, ma perché vede in questa scelta un’impostazione sterile e autoreferenziale. L’arte dovrebbe aprire menti e cuori, non creare inutili barriere linguistiche e generazionali. Se la cultura ha bisogno di scioccare per farsi ascoltare, allora forse il problema è più profondo di quanto si voglia ammettere.
4 commenti
Un evento degno della Ferragni.
Ora però basta parlare di questa volgare nullità, non danneggia nessuno.
Sono altre le figure femminili da temere , ad esempio quella jena che ci obbliga a fare 800 miliardi di debiti per il riarmo europeo.
Oppure quella che ha speso 800 milioni per i centri in Albania.
…. ma che collegamenti e paragoni ?!?!?!
L’arte è libera ma questo è un concetto che sembra disturbare molti. Problemi vostri.
Riflessioni condivisibili queste di Carlo Sirocchi, le stesse di tantissime persone che non hanno dato la loro testa all’ammasso !