Il primo è di parecchi anni fa, tanti non se lo ricorderanno, magari il contesto sì, ma la morte connessa sicuramente è passata nel dimenticatoio.
Se oggi parlo di SIFAR (servizio informazioni armate) forse qualcuno saprà cosa è, se parlo di “gladio” ancor di più, se poi parlo di “loggia P2” e Licio Geli, sicuramente a qualcuno ritornerà in mente qualcosa. Ma se parlo del Colonnello Renzo Rocca, certamente la memoria dell’accaduto non sarà ricordata.
Il Colonnello Renzo Rocca, direttamente o indirettamente, richiama e ricade dentro a tutti e tre gli elementi che ho detto sopra, SIFAR, gladio e Loggia P2.
Rocca nasce ad Alba (CN) nel 1910, ha scalato una carriera militare passando dal rango degli ufficiali fino a diventare un “agente segreto”, e per la precisione, responsabile del REI (ricerche economiche ed industriali), settore interno del SIFAR.
Non sto ad esporre tutti i passaggi dell’inchiesta Parlamentare che ha portato alla morte del Colonnello Rocca, mi limito a sintetizzare la questione.
Il SIFAR, oltre a programmare un presunto colpo di stato, era impegnato alla lotta e controllo dell’avanzamento come forza politica in Italia del comunismo, infatti aveva organizzato un servizio di intercettazione abusiva andando a creare qualcosa come 157.000 fascicoli illegali tra il 1959 e il 1966 su politici, militari, ecclesiastici, scrittori, tra i quali Pasolini, giornalisti, sindacalisti. I fascicoli dei dossier finivano in copia alla Cia, a cui il SIFAR, tramite il suo comandante Generale De Lorenzo, di fatto rispondevano.
Si parla di un presunto colpo di stato militare atto ad impedire l’avanzata politica del Comunismo in Italia. Il progetto, denominato “piano solo”, prevedeva l’arresto di tutti i politici del Partito Comunista, dei sindacalisti e dei funzionari statali comunisti, con successiva deportazione in una base nato in Sardegna, il presidio della RAI-TV, l’occupazione delle sedi delle testate giornalistiche di sinistra, nonché, a protezione dell’operazione, l’eventuale intervento dell’Arma dei Carabinieri qualora si fossero verificate manifestazioni di protesta, tumulti di piazza filocomunisti.
Il compito del Colonnello Rocca, alle dipendenze del Generale Giovanni De Lorenzo, era quello di trovare accordi con imprese ed imprenditori, allo scopo di avere finanziamenti monetari, il collettore dei contributi anticomunisti dal mondo industriale, in cambio di favori ed appalti nonché commesse militari e licenze d’esportazione di armi, per poter finanziare l’operazione del colpo di stato.
Non vado oltre nella presentazione della vicenda, dovrei scrivere pagine intere, quindi dico solo che il 15 febbraio 1967, il Colonnello Renzo Rocca viene sentito dalla Commissione d’inchiesta sugli illeciti dossier del SIFAR e successivamente doveva essere sentito per il presunto colpo di stato e tutto il sistema dei finanziamenti SIFAR.
Ma il Rocca non fu sentito e non potè più testimoniare perché il 27 giugno 1968 viene trovato morto all’interno del suo ufficio.
La morte era avvenuta per un colpo di pistola alla tempia, e come succede spesso in questi casi, scottanti e particolari, il decesso viene archiviato come suicidio.
La particolarità però della vicenda è che a seguito del guanto di paraffina eseguito sulle mani del Rocca, per la ricerca dei residui dello sparo, l’accertamento aveva dato esito negativo, tradotto in una semplice valutazione basata su riscontri scientifici di criminalistica, il Colonnello si è sparato, ma non ha mai sparato, suicidio!
Su questo caso non ho altro da presentare sotto il profilo dei rilievi tecnico scientifici per addivenire ad una chiara, trasparente e plausibile definizione del caso, penso di aver detto tutto; quello che andrò a presentare ora, invece, è molto ricco di elementi di criminalistica discutibili.
Il secondo caso è molto più recente e sicuramente molto più conosciuto, perché oltre al fatto di per sé, fa capo ad una questione molto sentita, conosciuta e discussa sul territorio nazionale, mi riferisco alle problematiche degli investimenti del Monte dei Paschi di Siena, i derivati, la perdita di capitale dei piccoli risparmiatori, e della connessa morte del dott. David Rossi.
La sera del 6 marzo 2013, in un vicolo adiacente a Rocca Salimbeni, sede del Monte dei Paschi di Siena, viene rinvenuto il cadavere di David Rossi.
David Rossi era il Capo delle relazioni esterne di MPS, prima di questo incarico era addetto alla gestione dei contributi e sponsorizzazioni della Fondazione Monte dei Paschi di Siena.
In seguito alle indagini della Guardia di Finanza, coordinate dalla Procura di Siena in merito ai “derivati” MPS, il 19 febbraio 2013 viene eseguita una perquisizione nell’ufficio, abitazione e pertinenze nei confronti di Rossi, viene sequestrata solo una piccola rubrica telefonica e Rossi non risulta indagato.
A Rossi la cosa non piace e lo lascia sconvolto, non possiamo sapere il perché, se sapeva qualcosa, se doveva nascondere qualcosa o se semplicemente non sapeva niente e la questione lo turbava, resta il fatto che, alcuni giorni prima della sua morte scrive una mail all’Amministratore Delegato di MPS, mail letta da tutto lo staff, con la quale chiede aiuto ed esprime la volontà di andare dai magistrati per parlare sulla questione…. “ho paura, voglio parlare con i magistrati, aiutatemi domani potrebbe essere già troppo tardi”.
Non mi dilungo oltre sulla questione MPS, andiamo direttamente alla sera del decesso.
Alle ore 19.43 la telecamera di video sorveglianza a circuito chiuso riprende il corpo di Rossi che cade sul piano della strada, dove morirà dopo essere rimasto agonizzante per circa 22 minuti.
Dai tabulati telefoni del cellulare del Rossi si riscontrano diverse chiamate in entrata della moglie, senza alcuna risposta, alle ore 20.16, ennesima chiamata della moglie, qualcuno apre la conversazione e riattacca subito senza parlare. Dopo quest’ultima chiamata, alle ore 20.16’.52’’ dal cellulare del Rossi viene eseguita una chiamata in uscita ad un numero strano, il nr. 4099009. Questo numero non è un’utenza telefonica, secondo la difesa ed i consulenti di parte, potrebbe essere il numero di un conto corrente “dormiente” o addirittura di un conto che fa capo allo IOR del Vaticano, che qualcuno, per dare un indizio o chi sa cos’altro, ha voluto lasciare impresso nel cellulare del Rossi impostandolo come chiamata telefonica, ma non risultano accertamenti in queste direzioni.
Incominciamo da qui, Rossi è disteso sul selciato del vicolo dalle ore 19.43, circa 30 minuti dopo qualcuno, dall’ufficio del Rossi, perché è lì che si trovava il telefono, risponde e riaggancia subito alla chiamata della moglie, compone un numero strano, di fatto inesistente, e fa partire la chiamata.
Alle ore 20.16, in concomitanza delle due telefonate, la videocamera di sorveglianza riprende un oggetto che cade in prossimità del corpo del Rossi, secondo i periti e consulenti tecnici di parte, si tratterebbe dell’orologio del Rossi che qualcuno ha gettato dalla finestra del suo ufficio. L’orologio viene rinvenuto, di fatto, in prossimità del cadavere, il cinturino nei pressi degli arti inferiori e la cassa all’altezza della spalla destra.
Qui altro elemento di valutazione, presumendo che l’orologio abbia terminato il suo funzionamento con l’impatto a terra, questo vale sia se era sul polso del Rossi al momento dell’impatto al suolo, sia se era stato gettato in un secondo tempo, la cassa dell’orologio, priva delle lancette dei minuti e dei secondi, saltate con l’urto al suolo, la lancetta delle ore segnava, le ore 20.15 circa; quando l’orologio ha urtato sul pavimento della strada?
Andiamo avanti, sul corpo ed indumenti di David vengono rilevate abrasioni, lesioni e tumefazioni, in particolare, sul polso sinistro, dove indossava l’orologio si rinviene sul polso una lesione prodotta verosimilmente, dal cinturino metallico dell’orologio e nella parte esterna del polso un’ecchimosi prodotta, verosimilmente per pressione dell’orologio, attribuibile, come detto anche dallo stesso Giudice ad un’ipotetica compressione traumatica dovuta ad una trazione con forza compatibile con un una presa forzata violenta, trascinamento del corpo o sospensione dello stesso nel vuoto. Sugli indumenti, invece, si rilevano delle evidenti tracce di usura sui pantaloni all’altezza dei ginocchi e sulla punta delle scarpe, compatibili con un possibile sfregamento degli indumenti sul muro dell’edificio, come se essendo sospeso fuori della finestra avesse tentato di arrampicarsi.
All’interno dell’ufficio del Rossi vengono rinvenuti, nel cestino dei rifiuti, due elementi interessanti. Il primo, un foglio manoscritto, accartocciato, con diverse parole cancellate da scarabocchi e leggibile solo la frase “ho fatto una cavolata”. Secondo elemento nr. 7 fazzolettini sporchi di presunta sostanza ematica, sangue. Per gli inquirenti il foglietto era evidente e palese volontà suicida, mentre i fazzolettini, repertati dalla Scientifica, senza essere esaminati perché non ritenuti inerenti al decesso di Rossi sono stati distrutti su disposizione del PM ancor prima della pronuncia del GIP per l’archiviazione. Di chi era quel sangue? Perché i fazzolettini erano lì?
Le cose strane no finiscono qui, i soccorsi sono stati chiamati alle 20.35 circa, da un collaboratore di Rossi che, allertato dalla moglie che non lo vedeva rientrare, si era recato nell’ufficio di David, aveva visto la finestra aperta, ed affacciatosi vede il corpo sul pavimento della strada sottostante. Però, alle ore 20.11, la telecamera di videosorveglianza, riprende una persona che si affaccia dalla parte terminale del vicolo, sta evidentemente parlando al cellulare, guarda verso il corpo che giace a terra e se ne va. La cosa ancor più strana è che si vedono riflesse sul muro del vicolo, oltre alle ombre di persone che si muovono, le luci posteriori di un’autovettura posta in forma anomala sul vicolo, ovvero rivolta al contrario rispetto al senso unico di marcia di quel tratto stradale, sembra come se si fosse posta lì quell’autovettura per impedire il transito nel vicolo. Chi erano quelle persone? Di chi era quell’autovettura? Cosa facevano lì? Perché non hanno chiamato i soccorsi vedendo il corpo di Rossi disteso sulla strada? Bisogna tenere presente che l’edifico che ospita la sede della Monte dei Paschi di Siena, Rocca Salimbeni, è vigilato all’esterno con oltre dieci videocamere di sorveglianza a circuito chiuso, nessun video è stato acquisito, sequestrato ad eccezione di quello della telecamera nr. 6.
Altro elemento non di poco conto, è la modalità di caduta, ovvero il corpo cade tenendo una postura verticale, con i piedi verso il basso ed il volto rivolto alla parete. E questa tra tutte le altre circostanze, è sicuramente la più anomala. Ora, immaginate una persona che volontariamente si getta da una finestra, per forza di cose va avanti con la testa e cade perpendicolarmente con testa verso il basso e piedi verso l’alto, qualora durante la caduta avvenisse la rotazione del corpo, portando i piedi verso il basso e la testa verso l’alto, il volto sarebbe per dinamica rivolto opposto alla parete. La posizione di caduta del Rossi sembra dimostrare che lo stesso sia uscito dalla finestra con i piedi, rimasto appeso nel vuoto, abbia agitato le gambe per risalire, la riprova sono le escoriazioni ed usure su ginocchia e punta delle scarpe, poi sia caduto mantenendo la posizione verticale piedi in basso e testa in alto con il volto rivolto alla parete. Se ci mettiamo le lesioni sui polsi, la compressione della cassa dell’orologio che ha provocato un’ecchimosi, non sarebbe poi così tanto assurdo ritenere che Rossi sia stato tenuto in sospensione fuori dalla finestra e poi lasciato cadere.
Un ulteriore elemento che getta dubbi su tutta la vicenda sono le registrazioni della videocamera di sorveglianza. I consulenti di parte, ritenendo che nelle immagini manchino dei momenti, valutando ciò anche dal fatto che in una parte delle stesse risulta impressa ora e data, mentre in altre queste mancano, avevano chiesto l’acquisizione dei file originali. La Procura asseconda la richiesta ma i consulenti stabiliscono che la tipologia dei file non corrispondono a quelli generati dal registratore che fa capo alla videocamera di registrazione, di fatto, quindi, gli originali sembrano non esistere più ma solo una copia passata e rielaborata al computer.
La pratica della morte di David Rossi è stata archiviata come suicidio. Dopo un po’ di tempo, su pressione dei familiari è stata riaperta e di nuovo archiviata come suicidio.
Ho sempre detto e sostenuto che la scena del crimine parla, ci trasmette qualcosa, si deve ascoltare e leggere, ma quando anche elementi particolarmente calzanti non vengono letti, sottovalutati o spiegati con bizzarre spiegazioni, le questioni diventano complicate.
È difficile sostenere, ed ingiusto, senza riscontri e prove che la questione sia stata volutamente chiusa come suicidio per coprire qualcosa o qualcuno. Però, dalla ricostruzione della vicenda emergono tanti, troppi ponti oscuri e strani, magari, per essere più gentili, si potrebbe pensare che, non potendo arrivare ad incriminare qualcuno, non potendo arrivare ad identificare il possibile autore del presunto omicidio, quindi classificandolo come tale sarebbe rimasto in piedi come “cold case”, caso freddo, e spesso, troppo spesso, sembra sia disonorante dire è omicidio ma non riusciamo ad identificare il reo, quindi la strada dell’archiviazione per suicidio diventa la più sanificatrice e purificatrice per l’integrità della bravura professionale.
Il fratello di David Rossi, come lui stesso dichiara agli inquirenti ed ad una intervista giornalistica, dice di aver trascorso con lui parte della mattina e consumato un pranzo veloce insieme, riferisce che il fratello era ossessionato di essere seguito e spiato e si giustifica dicendo “..un amico mi ha tradito, ho fatto una cavolata….”
Per chi interessa la storia, lo scrittore/giornalista David Vecchi ha scritto un libro intitolato “il caso David Rossi – il suicidio imperfetto del manager MPS”.
Qui vi saluto rimandando al prossimo articolo altre storie interessanti.
Accattoli Gabriele
3 commenti
Bell’articolo complimenti! In attesa dei prossimi..
Uno dei tanti tragici misteri italiani. La magistratura non ne esce in modo troppo brillante, la scia è lunga dall’omicidio Matteotti, il suicidio Calvi, la morte di Sindona, via via fino al caso di Ilaria Alpi e del giudice Borsellino. Da far venire i brividi.
Sono articoli bellissimi, complimenti. Ora, se può, parli di un caso terribile che non è finito sui giornali nazionali ma ci riguarda da vicino, il caso della giovane infermiera Claudia Bartolazzi. Tanti troppi femminicidi vengono comodamente etichettati come suicidi, per non parlare dell’induzione al suicidio.