Qualche volta succede che in Tribunale leggano relazioni scientifiche oggettive e documentate, invece che basarsi su illazioni, considerazioni, retropensieri e luoghi comuni che spesso si trovano – nell’abuso di questa o quella professione – in molti documenti scritti da operatori dei Servizi Territoriali e che arrivano sui tavoli dei Giudici. Giudici che hanno il compito di decidere il destino di un bambino e di tutta la sua famiglia: genitori, fratelli, nonni, cugini, zii…
Questa è la storia di un bambino – ma anche di una ragazzina ormai quasi maggiorenne – che coinvolge profondamente tutta la famiglia.
È la storia di una bravissima persona, un uomo in gamba, dalla moralità specchiata, che ha commesso un unico “peccato” nella vita, quello di innamorarsi e sposarsi con una donna che, ad un certo punto del percorso, ha iniziato a consumare alcol fino ad abusarne, sconfinando nell’alcolismo.
“Nella buona e nella cattiva sorte”, si erano promessi. E questo ha fatto, il marito e padre di famiglia. Non ha abbandonato la moglie in difficoltà, ma l’ha seguita, indirizzata, curata, sostenuta. Mentre si prendeva cura dei figli e si impegnava a tenere unita la famiglia e al sicuro tutti i suoi componenti.
Cosa si rimproverava, dunque, a questo padre? In base a cosa è stato condannato? È stato condannato per non aver immediatamente portato “altrove” i figli. Per non aver gettato la spugna sul proprio matrimonio, sulla propria famiglia, sulla donna che amava e alla quale aveva promesso sostegno di fronte alle difficoltà della vita.
La donna è stata seguita da medici e sottoposta a tutti gli aiuti possibili, fino anche al ricovero in strutture; purtroppo senza successo.
Ma anche quando – dopo innumerevoli tentativi – si è optato per la separazione dei coniugi, la “diagnosi” riportata nella relazione dei Servizi è stata la medesima: non è un buon papà, avrebbe dovuto allontanare i bambini dalla madre prima.
E anche quando, dunque, tale allontanamento era ormai un fatto, i bambini sono stati comunque sottratti al padre che – pure – aveva ormai messo in atto quanto richiesto.
I figli sono stati separati anche tra di loro: posti in due strutture distinte e lontane, con vicissitudini e aggravanti che hanno reso tale passaggio difficile ancora più crudele.
La ragazza, adesso grande, sta frequentando l’Istituto Superiore in un’altra città e ha trovato una sua collocazione nel mondo.
Il piccolo – collocato in comunità – a mala pena riusciva a vedere il padre. Le telefonate erano un’ora al mese e gli incontri in video. Difficile fargli arrivare regali, perfino nel giorno del suo compleanno.
Una vita da condannati, come delinquenti.
Il bambino – che frequentava la parrocchia, gli scout, corsi di tennis e attività pomeridiane – è stato sottratto a tutta la propria vita e parcheggiato per ore in un Centro diurno, una sorta di ghetto per bambini con situazioni difficili, cosa che di fatto lo ha reso un diverso. È stato oggetto di chiacchiere e commenti da parte dei coetanei. Meccanismo che lo ha reso improvvisamente fragile, triste, insicuro, colpito nell’autostima anche da parte del gruppo dei pari. Etichettato come “sfigato”, quando invece era sempre stato un normalissimo ragazzino in gamba, seguito dalla famiglia nelle attività molteplici e ricche di stimoli in cui si distingueva per capacità e impegno.
Fino a che – e qui si vede finalmente luce, in una storia che fino ad ora conteneva solo ombre – il papà non si è rivolto alle persone giuste. Così, chi scrive ha preso in mano l’assurda vicenda di una famiglia spezzata inutilmente, con reiterato accanimento istituzionale.
Grazie anche ad una Relazione Pro Veritate / Controperizia basata esclusivamente sulla descrizione dei fatti e sulle prove oggettive, il Giudice non ha potuto far altro che interrompere l’illegalità che si stava perpetrando ai danni dell’intero nucleo familiare. E ha disposto di riconsegnare il bambino ai suoi affetti.
È una storia che non si poteva non raccontare. Una storia che meritava giustizia.
Perché bisogna essere professionisti seri, quando si tratta di bambini e famiglie. E bisogna porre l’accento sui Servizi che spesso compilano relazioni cariche di luoghi comuni e concetti copia-incolla.
Perché ogni bambino è un mondo a sé e ogni famiglia è il mondo di quel bambino. E, prima di scrivere illazioni e condanne sulla carta, bisogna fare particolare attenzione: inviare al Giudice dati oggettivi, privi di generalizzazioni, raccontando la storia, la genesi, comprendendo con chi si abbia a che fare e quali possano essere gli esiti di “messe insicurezza” sconsiderate.
Questo è il lavoro che spetta ai Tecnici: non quello di condannare – attraverso un fiume di parole dannose – bambini e famiglie.
Sono molto onorata di aver potuto dare il mio contributo scientifico per la liberazione di questo bambino.
Dedicato a tutti i papà coraggiosi.
Vincenza Palmieri
presidente Inpef (presidente nazionale di pedagogia familiare)
3 commenti
Bellissimo articolo, dovremmo tutti TUTTI riflettere.
Si però poi raccontate pure di quei padri che davanti al giudice fanno la parte del genitore modello e poi nella vita reale neppure si ricordano in che giorno è nato il proprio figlio.
Non ci credete vero!
Si, certo che è vero, ma nove volte su 10 i padri subiscono leggi ingiuste