Nell’ultimo articolo avevo detto che oggi avrei continuato con le morti eccellenti dei protagonisti della maxi tangente Enimont, poi, strada facendo, ho deciso di fare una piccola interruzione e con questo articolo voglio presentare un altro caso. Il 21 marzo è la data del “ricordo delle vittime della mafia” e neppure a farlo apposta, tra le tante vittime per mano della mafia, ce n’è una che, in qualche modo, può rientrare nel discorso che sto portando avanti con il titolo di questi ultimi articoli, suicidio o omicidio.
Quando avvenne il fatto di cronaca ero troppo piccolo per seguire la cosa, poi gli sviluppi giudiziari, avvenuti tantissimi anni dopo, non li ho seguiti con la dovuta attenzione, in quegli anni le inchieste galoppavano a mille. Circa due anni fa, per combinazione mi sono imbattuto nell’ascoltare una trasmissione su Rai Radio 1 “Mangiafuoco”, che propose l’intera storia colpendomi particolarmente. La sera del 21 marzo ultimo scorso, in occasione della giornata del ricordo, un canale TV Rai trasmette il film dedicato a quella storia; a questo punto non potevo non parlarne nei miei articoli. L’articolo per la storia Gardini e Cagliari era pronto, mancava solo l’invio al Direttore di Radio Erre, ma ho preferito bloccarlo e mettermi subito alla stesura di questo.
Oggi voglio presentare la storia del “compagno” terrorista morto per l’esplosione dell’ordigno che stava piazzando per un attentato dinamitardo, oppure no? Era troppo esagerato, quindi strada facendo si è modificato, ed inizialmente archiviato, come suicidio del “compagno” che stanco della politica e della vita ha scelto la via breve, oppure no?
Sto parlando di Giuseppe Impastato, conosciuto come “Peppino”, della sua tragica morte, della travagliata inchiesta, piena di collusioni, depistaggi e non so cos’altro.
Peppino nasceva a Cinisi (PA) il 5 gennaio del 1948, la sua famiglia aveva fortemente le mani impastate con la mafia locale, il padre affiliato e lo zio addirittura capomafia del paese. Peppino, laureato in filosofia e storia, non accetta l’affiliazione alla mafia e si mette in contrasto con la famiglia, in particolare con il padre, con il quale ha un rapporto molto conflittuoso.
Politicamente inizia la sua attività all’interno del PSIUP (partito socialista italiano di unità proletaria), attivista con il “manifesto”, poi con “Lotta Continua”, per poi aderire, sia come attivista che come candidato alle elezioni locali con il partito Democrazia Proletaria. Aveva fondato un giornalino “L’idea Socialista” ed aperto una radio locale “Radio Aut” con sede a Terrasini (PA).
La sua attività giornalistica era concentrata, possiamo dire in forma prioritaria, nella lotta alla mafia, alla denuncia dei crimini mafiosi e degli affari mafiosi che perversavano sui territori di Cinisi e Terrasini; obiettivo primario, lo scredito, la denuncia e lo sbeffeggiamento del capomafia locale, l’istituzione mafiosa della zona, tale Gaetano Badalamenti.
Purtroppo Peppino non aveva fatto i conti con la vera forza omicida della mafia, il suo nemico principale, Badalamenti, da lui chiamato beffardamente nelle sue trasmissioni radio “Tano Seduto”, dopo ripetuti messaggi intimidatori atti a far cessare la sua attività d’inchiesta, di denuncia e di ridicolizzazione, ordina l’eliminazione fisica di Peppino, che avverrà la notte tra l’8 ed il 9 maggio 1978, così sarà stabilito nella sentenza dopo tantissimi anni.
Ma, purtroppo, all’inizio non fu così. Non vorrei essere esagerato, irrispettoso, ingiurioso o diffamatore, ma i fatti non lasciano altre interpretazioni, la collusione della mafia con le forze dell’ordine, con la magistratura, con la politica, ovvero interessi diversi dalla giusta ricostruzione del fatto criminoso e doverosa condanna per gli autori, arricchito il tutto da depistaggio ed assassinio anche del magistrato che non aveva creduto all’archiviazione del caso, avevano portato a delle tesi investigative, con conseguente archiviazione, che sfociavano evidentemente nel ridicolo.
Il 9 maggio 1978, data molto particolare per la storia italiana, quel giorno veniva rinvenuto il Cadavere di Aldo Moro, e ovviamente, la stampa nazionale diede più risalto a questo che al caso Peppino Impastato.
Peppino per le istituzioni era un comunista, un compagno, un intellettuale dissidente, seguace di Lotta Continua, un destabilizzatore della democrazia e delle istituzioni democratiche, questo è stato il punto di partenza per le indagini della sua morte; è ovvio che un ragazzo con questo curriculum poteva benissimo essere inquadrato come terrorista, quindi, atto ad organizzare un attentato dinamitardo contro le istituzioni del paese, nel caso specifico la ferrovia, dove, però, per un errore di lavorazione rimane vittima del suo stesso attentato. Sembra semplice, chiaro, perché no, ci poteva anche stare.
Infatti, la prima segnalazione parte con il seguente fonogramma “Attentato alla sicurezza dei trasporti mediante esplosione dinamitarda. Verso le ore 0,30-1 del 9.05.1978 persona allo stato ignota, ma presumibilmente identificata in tale Impastato Giuseppe si recava a bordo della propria autovettura all’altezza del km. 30+180 della strada ferrata Trapani-Palermo per ivi collocare un ordigno dinamitardo che, esplodendo, dilaniava lo stesso attentatore”
Qui mi ricollego subito all’importanza che ho sempre sostenuto, fortemente sostenuto, ovvero, arrivare sulla scena del crimine ed avviare le indagini, siano esse scientifiche che classiche, con il pregiudizio o la convinzione che…., porta, senza alcun dubbio, ad inquinare gli accertamenti, a non vedere tutto quello che si presenta davanti e perdersi elementi fondamentali per la strada. Poi, se la questione, ha addirittura altri interessi collusori/politici, la frittata è fatta.
Da quanto ho potuto ricostruire, sulla scena del crimine sono stati omessi, o non fatti nella dovuta maniera, degli accertamenti irripetibili di indagine criminalistica, che avrebbero potuto aprire la strada a diverse prospettive. In fretta e furia, con grandiosi titoli giornalistici, si chiude il caso, attentato terroristico che ha visto vittima lo stesso attentatore.
Forse qualcuno si è reso conto che si era esagerato troppo, forse l’insistenza dei familiari, forse la necessità di ridimenzionare la cosa per dare meno visibilità alla vicenda, o forse il fatto che non erano stati rinvenuti riscontri idonei a sostenere l’attività terroristica, per reggere la tesi del suicidio prendendo spunto da una “letterina” di poche righe, scritta a mano, o per usare un termine più tecnico, vergata a mano, custodita all’interno di un libro, rinvenuta dai Carabinieri durante la perquisizione nell’abitazione di Peppino, per la ricerca di esplosivo o di qualcosa che potesse comprovare l’attività terroristica.
Cosa aveva scritto Peppino in quella letterina? “sono stanco di questa politica e stanco di questa vita, voglio smettere…”. Il luogo del rinvenimento della “letterina” già dovrebbe far pensare, un aspirante suicida che nasconde la sua lettera all’interno di un libro è una forma anomala, molto anomala, per giustificare il gesto. Poi, Peppino era un “filosofo”, se quella frase l’avesse scritta un comune mortale, sì, si poteva valutare un pensiero strano, ma un filosofo, spesso scrive tra le righe, e si deve interpretare il pensiero, non ci si può fermare alla semplice e matematica traduzione.
Ma la “letterina” è stata sufficiente per identificare il caso, con conseguente archiviazione, come suicidio.
La caparbietà del fratello di Peppino, Giovanni, e della mamma Felicia Bartolotta, vedova Impastato, con il sostegno ed aiuto dei colleghi della radio e compagni di partito, fanno crollare le tesi iniziali di archiviazione, aprendo la strada al possibile delitto di matrice mafiosa. Infatti, il fratello Giuseppe con i collaboratori/compagni di Peppino, iniziano un’attività di indagine, una raccolta di prove, cosa non fatta dai Carabinieri che per primi erano intervenuti sulla scena del crimine, riuscendo, addirittura, ad individuare e localizzare il luogo dove Peppino, prima di essere stato fatto esplodere sulla ferrovia, era stato violentemente malmenato e, probabilmente, ucciso, un casolare distante qualche decina di metri dal punto dell’esplosione. A queste indagini private segue la denuncia dei familiari, madre e fratello contro ignoti per omicidio che, aprono la strada al Magistrato, Giudice Istruttore, Rocco Chinnici per riaprire le indagini ipotizzando l’omicidio di matrice Mafiosa. Purtroppo anche Chinnici diventa obiettivo della mafia e muore a seguito di un attentato dinamitardo. Le indagini vengono riprese dal suo vice, il Magistrato Antonio Caponnetto.
L’inchiesta, tra archiviazioni e riaperture va avanti lentamente, e vedrà la sua luce definitiva solo nel 2001, dove arriva la condanna per Vito Palazzolo quale autore dell’omicidio di Peppino Impastato e, nel 2002 la condanna per mandante dello stesso omicidio per Gaetano Badalamenti.
Altre inchieste hanno riguardato componenti dell’Arma dei Carabinieri, riconosciuti responsabili per depistaggio alle indagini, nel dicembre del 2000, la Commissione Parlamentare Antimafia, approva una relazione sulla responsabilità di rappresentanti delle Istituzioni nel depistaggio delle indagini per l’omicidio di Peppino.
Il film a cui ho fatto riferimento all’inizio dell’articolo è “Felicia Impastato”, del 2016, regia di Gianfranco Albano. Presumo che la storia così come rappresentata sia veritiera, non oso immaginare che il regista e lo sceneggiatore abbiano inserito particolari molto rilevanti frutto di fantasia, “licenze poetiche”, e quello che più mi ha colpito, rimanendo nella materia della criminalistica, delle indagini di criminalistica e di Polizia Giudiziaria, sono le parole dette dal Magistrato Chinnici, interpretato da Antonio Catania, “…troppa fretta di sistemare i binari…..nessuna perquisizione sull’auto di Impastato…..le pietre sporche di sangue lasciate sul luogo…..nessun interrogatorio ai guardiani del passaggio a livello…..nessuna ricerca di impronte sull’autovettura……nessun rilievo planimetrico……nessun setacciamento sul terreno per cercare un’impronta……nessuna traccia di esplosivo e di inneschi……nessun documento fotografico ne reperti essenziali……come il luogo dell’esplosione, il particolare del cratere e il binario interrotto……nessun riferimento alla casa rurale che pur viene citata per descrivere il luogo….ma vi rendete conto?……”
Quando si parla di “morti strane o dubbie”, l’interpretazione del vero epilogo della vicenda, fermo restando la decisione della Magistratura, può incontrare più ipotesi, quindi suicidio o omicidio può rimanere appeso ad un dubbio; questo vale per i tanti nomi di cadaveri illustri che ho in precedenza elencato, in questo caso, invece, è emblematico l’aspetto, che rafforza la mia mente “pacata” che spesso, forse troppo, è più facile, se non addirittura comodo, archiviare per suicidio……………
Concludo l’articolo, per ricordare Peppino Impastato, un eroe che ha combattuto contro uno dei mali della nostra Italia, pagando con la propria vita, con uno stralcio della canzone “cento passi” dei Modena City Ramblers “…. Nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio, negli occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare, aveva un cognome ingombrante e rispettato, di certo in quell’ambiente da lui poco onorato, si sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore….”
Con il prossimo articolo riprenderò quanto lasciato in sospeso delle morti inerenti la tangente Enimont.
Accattoli Gabriele
2 commenti
Bellissimo articolo!!!
Certo che se la Mafia non avesse avuto e avesse tante coperture nello Stato non saremmo nel punto in cui siamo. Ma i nomi di questi investigatori e magistrati “distratti” possono almeno essere conosciuti? Sono stati perseguiti? Ma certo che no.